Totem e tribù – genesi e strategie delle brand community – Episodio I
Come e perché nascono le brand community ? Chi ne fa parte? Che bisogni esprimono? In che modo i brand possono servirsene al meglio? Quando rappresentano una minaccia?
Il web, per sua stessa natura, si presta ad essere terreno fertile per la nascita di quelle che Bernard Cova chiama neotribù “un insieme di individui non necessariamente omogeneo (in termini di caratteristiche sociali obiettive), ma interrelato da un’unica soggettività, una pulsione affettiva o un ethos in comune”.
Il neotribalismo della società postmoderna va visto come una naturale risposta di aggregazione sociale ad un radicale e progressivo decadimento delle forme di organizzazione tradizionali (partiti e chiesa in primis) e alla situazione anomica, ovvero di assenza valoriale che ne è scaturita. Le nuove comunità catalizzano ed esprimono un bisogno di socialità empatica, di risposta a una forma di razionalizzazione estrema della conoscenza, si formano per la naturale o indotta convergenza di persone che avvertono l’esigenza di condividere passioni comuni, relazionarsi e dialogare, sentirsi parte attiva nella costruzione delle stesse.
Ciò che differenzia le web community dalle comunità tradizionali è il fatto di avere una natura aperta, fluida, trasversale, volatile ed effimera. I membri possono registrarsi contemporaneamente a più comunità, entrare ed uscirne quando vogliono. Identità plurime e frammentate che difficilmente si prestano a operazioni di targettizzazione basate sulle tradizionali categorie sociologiche.
In un contesto del genere, il brand è chiamato a svolgere una funzione totemica, religiosa, nel senso etimologico del termine di religare, collegare, unire, tenere assieme. Quali, dunque, le strategie di community building che un brand intenzionato a rafforzare il rapporto di vicinanza con i consumatori deve adottare? Dave Balte, fondatore e CEO di BzzAgent, media agency di Boston specializzata in buzz marketing, ne suggerisce alcuni che possono essere così sintetizzati:
- focalizzarsi sui bisogni dei consumatori: chiedersi “Perché i consumatori formerebbero una comunity attorno al proprio brand?” Da qui la necessità di non limitarsi a totemizzare la comunità attorno ad un unico prodotto, ma di sensibilizzare gli adepti alla condivisione di esperienze, bisogni e brand values.
- interagire con i membri: il brand non dev’essere osservatore esterno e distaccato, ma parte attiva del dialogo. Può, ad esempio, fornire anticipazioni sui prodotti di prossima uscita, ascoltare pareri e suggerimenti in un’ottica di trasparenza e limitarsi a moderare su questioni di natura etica e legale. In passato c’era già chi, come Philippe Breton, ispirandosi al paradigma della cibernetica, teorizzava l’avvento di una nuova società trasparente in risposta ai fallimenti ideologici del secolo scorso e alle tendenze entropiche scaturitene.
- promuovere una comunicazione orizzontale: favorire il diaologo più che tra il brand e i suoi seguaci, tra i membri stessi della community, che usciti dal ruolo di ascoltatori passivi, tendono a divenire prosumer, consum-attori che dialogano, confrontano esperienze e opinioni, attori partecipi all’elaborazione del significato da veicolare, in piena logica crowdsourcing, e talvolta, suoi stessi manipolatori. Un tam tam mediatico di user generated content che si diffonde viralmente sfruttando il meccansimo di rimbalzo della rete, arrivando a comunicare anche con comunità esterne, nicchie sparse nella rete, altri microcosmi di una costellazione neotribale.
Andando a scrutare all’interno di comunità già esistenti, o creandone di nuove, l’azione di community building avrà tanto più successo quanto maggiore sarà la capacità del brand di promuovere un sistema valoriale, indurre un bisogno di partecipazione attiva e condivisione, attribuire un valore aggiunto al prodotto.
Gli esempi non mancano. Si pensi alla community di Ferrero, sviluppata attorno ai valori dell’aggregazione familiare e dell alimentazione sana, o al social network REZO, progetto promosso dalle ferrovie francesi e indirizzato prevalentemente ai giovani, che fa leva sul bisogno e l’opportunità di utilizzare il viaggio come occasione per fare conoscenza, momento di scambio e condivisione di informazioni utili. Altri casi esemplari sono le community di Nutella, Lavazza, Il Mulino che vorrei, valido esempio, quest’ultimo, di un coinvolgimento attivo dei membri invitati a esprimere i loro suggerimenti su migliorie da apportare ai prodotti e nuove iniziative da lanciare, in piena logica UGC, sino ad arrivare alle community di Fiat 500 e Ducati che, tra i vari servizi offerti, consentono ai propri iscritti di costruire delle proprie pagine personalizzate simili a blog.
Emerge chiaramente come l’incremento della brand awarness passi necessariamente attraverso un coinvolgimento attivo dei propri sostenitori, evangelisti del brand che contribuiscono significativamente a conferirne credibilità o, all’opposto, a stravolgerne il significato e ad opporsi ad esso. La domanda successiva che viene da porsi è dunque: ” Cosa accade nel momento in cui la tribù si oppone al totem ?” La risposta nel prossimo post.
The saga continues…
settembre 11th, 2012 at 06:13
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settembre 30th, 2012 at 01:06
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marzo 25th, 2013 at 23:43
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